Gli studenti di Gorizia sono impegnati nello studio in misura inconsueta e piuttosto eccezionale perché seguono un corso di laurea molto originale e specializzato. Si tratta del corso di Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, in pratica una filiazione della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Trieste.
Fu una formula nuova e unica sia in Italia che in Europa. Questa laurea infatti è intesa ad assicurare delle qualifiche specializzate per due settori di attività:
Quello di "operatore internazionale" con vocazione per una vasta gamma di impieghi internazionali, ad esempio: Unione Europea (Commissione, Consiglio dei Ministri, Parlamento, Corte di Giustizia, Banca Centrale, Banca Europea di Investimenti, Banca Europea di Ricostruzione); ONU e sue agenzie (PNUD, FAO, UNICEF, ILO, UNIDO, UNEP, UNHCR, UNDRO, ecc.); istituti di credito internazionali (Banca Mondiale, FMI); infine le grandi imprese industriali, creditizie, assicurative, di trasporti che operano sul piano mondiale.
L'altro settore è quello di "operatore diplomatico" con vocazione anzitutto per la carriera diplomatica del Ministero degli Esteri, e subordinatamente per impieghi nelle direzioni generali delle grandi imprese che operano con l'estero mediante servizi di relazioni pubbliche in qualche modo assimilabili a funzioni diplomatiche.
Da notare che le possibilità di impiego dopo la laurea non si riferiscono solo alla immissione diretta nelle carriere nelle diverse organizzazioni e imprese, casi fortunati e necessariamente limitati, ma soprattutto ad attività a tempo determinato come missioni specifiche di appoggio, consulenza o studio, brevi o lunghe, in genere ben remunerate e che costruiscono "curriculum" utili per successivi progressi. Pare che nel giro di 12 mesi dopo la laurea almeno il 40% degli studenti di Gorizia sia al lavoro.
Il corso di laurea ha un "numerus clausus" fissato dalla Facoltà di Scienze Politiche di Trieste. Nei primi 9 anni fu di 100 ammissioni annuali, in base a un esame-concorso con prove scritte e orali. I candidati si aggirano in genere intorno ai 350. Tenendo conto dei "fuori-corso", che sono piuttosto limitati, gli studenti presenti sul campus sono all'incirca 450-500.
Importantissime a tutti gi effetti sono le lingue previste nel curriculum. La padronanza obbligatoria dell'inglese e del francese è assicurata durante il corso, mentre una terza lingua, scelta da una lista di 8, dev'essere studiata nel 3° e nel 4° anno. Per gli impieghi internazionali questa è una vera rendita di posizione, considerando che generalmente, se si prescinde dai paesi poliglotti (Danimarca, Svezia, Norvegia, Paesi-Bassi), negli organismi internazionali si ha conoscenza di sole 2 lingue compresa la propria (se è una delle maggiori), altrimenti di sole 3.
Ecco dunque che cosa fanno questi studenti! Una volta superata la prova di ammissione, entrano in un circuito di lezioni ed esami infernale di 4 o 5 anni, durante i quali devono sostenere non meno di 35 esami. Siccome poi molti di essi hanno sette spiriti come i gatti, riescono anche il più delle volte a seguire corsi Erasmus e altri corsi o stages di specializzazione all'estero.
Ciò ne porta un certo numero fuori corso, ma in genere non oltre un anno. Una delle motivazioni che possono spingere gli studenti a fare l'esperienza di corsi all'estero sta nel desiderio di constatare di persona come i sistemi universitari degli altri paesi funzionino meglio nel nostro, soprattutto nei loro confronti, ossia della sollecitudine dell'ambiente accademico nei loro riguardi.
La tendenza a seguire corsi supplementari all'estero perdura anche dopo la laurea. Quando gli studenti si consigliano con me su questo argomento, mi preoccupo di accertare col massimo scrupolo il contenuto e l'utilità effettiva del corso supplementare proposto. E' opportuno infatti che esso sia legato intimamente, o a una vocazione precisa e qualificata, oppure a una attività specifica in vista della quale lo studente ha già concrete possibilità o affidamenti. Avviene però talora che mi dichiari per la negativa. E' per evitare quella tendenza psicologica inconscia di certi studenti, segnalata anche da Freud, a non potersi staccare dall'età universitaria. E' del resto una tendenza che sovente induce i laureati a perseguire le funzioni di "assistenti" di docenti. L'idea di restare nel "nido" ben conosciuto, piuttosto che spiccare il volo verso l'ignoto.
Un indizio importante dell'impegno nello studio è che questi studenti tengono molto alla media dei voti d'esame. Di fronte a un voto fra 18 e 24 in genere, se possono, preferiscono ripresentarsi. In sette anni coloro che hanno accettato un voto da me ai bassi livelli si contano nelle dita di una mano. In alcuni casi ciò si verifica perché, di fronte alle difficoltà del curriculum del corso di laurea, lo studente ha in parte ridotto le sua ambizioni. In altri casi é perché vi é stato costretto per qualcuno degli esami dall'accavallarsi disordinato degli appelli in una medesima sessione.
Se poi passiamo alla fascia dei voti alti, ci sono studenti, ma soprattutto studentesse, che sono dei veri computer (lo dico senza offesa!). Basta con una domanda spingere un bottone, ed ecco che vengono fuori quasi letteralmente le righe del libro di testo sull'argomento. Continuando con le domande si ottengono sempre le stesse pronte reazioni. A questo punto però viene naturale il sospetto di un eccessivo ricorso alla memoria, di un apprendimento di tipo automatico non destinato a durare. Si sposta allora il discorso dal contenuto del libro di testo su un dato tema, ai problemi che esso pone, in sviluppi anche di data recentissima. Dal tipo di commenti che si ottengono dallo studente si vede che siamo in presenza non di un computer memorizzante, ma di una mente viva, critica e creativa.
Trovandomi nella fascia mediana dei voti, ho sempre cercato per parte mia di non contribuire ad abbassare la media generale, aggiungendo peraltro in questo caso una condizione: quella che lo studente conservasse il mio testo e gli appunti a portata di mano, onde poter rivedere il tutto accuratamente in previsione di un concorso o colloquio presso un organismo pubblico o privato, in vista di una futura attività nel campo della cooperazione allo sviluppo.
In conclusione, con questa massa di lavoro che tipo di svaghi hanno questi studenti di Gorizia? Sono in prevalenza occasionali, brevi e in qualche modo legati ai loro studi? Durante l'estate molti pianificano le loro vacanze in altri pesi al solo scopo di fare pratica linguistica, dato che devono conoscere tre lingue oltre l'italiano.
Come si è visto, il curriculum accademico del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, sebbene di non facile elaborazione data la sua novità, fu all'inizio impostato con buona competenza didattica in un quadro esauriente e di largo respiro.
Queste circostanze positive aiutano forse a individuare alcuni inconvenienti rivelatisi col tempo, in particolare uno: la assenza di un corso obbligatorio annuale di antropologia culturale. Trattandosi di questione vitale per il corso di laurea, vale la pena di soffermarsi un poco su questo argomento.
Si può dire che il primato in antropologia culturale sia oggi tenuto dalla Gran Bretagna (John Goody, Marshall Sahlins, Mary Douglass) e dagli Stati Uniti (Clifford Geertz e altri), anche dalla Francia (Maurice Godelier, Alain Touraine), sebbene qui si sia ancora troppo legati allo strutturalismo di Lévy-Strauss. Quanto all'Italia, questa fondamentale scienza sociale ancora non esiste, e la maggioranza degli studiosi si divide tra sociologi ed etnologi, ciascuno facendo "tifo" per la sua scienza. Un po' come nel film di Fellini "Prova d'Orchestra", dove ciascun musicista afferma senza ombra di dubbio il primato del proprio strumento, compresi il flauto (il "primo" strumento, di origine pastorale), la grancassa (maestro del ritmo, dio del tuono), i piatti (esplosione del sentimento). Cerchiamo dunque di chiarire qui alcuni punti essenziali che molti docenti tendono a dimenticare.
Come rileva Tullio-Altan, il termine di "antropologia" appare per la prima volta in Blumenbach (1752-1840), e in Kant (Antropologia prammatica, 1798), ma questa scienza in realtà risale ai Greci come discorso sull'uomo e come indagine sui suoi modi di vita, in connessione con l'espansione coloniale fra i sec. 7° e 6°, e con la distinzione fra la cultura (paideia) dei Greci e la non cultura dei non Greci o barbari. Ne conseguì un ellenocentrismo tradottosi poi nell'etnocentrismo che ancora conosciamo. A partire dall'Illuminismo, il pensiero e le teorizzazioni corsero sul doppio binario dell'etnocentrismo e della sua critica, fino praticamente all'inizio del nostro secolo.
A questo punto andrebbero notati due fatti. Da un lato l'origine molto più recente della sociologia rispetto alla etnografia e alle prime forme di etnologia. E dall'altro che, mentre nel campo etnografico-etnologico si ebbe la precedenza cronologica della ricerca dei dati in rapporto alla loro interpretazione, nel campo sociologico si partì dalla riflessione filosofica per poi giungere con un certo ritardo alla concreta ricerca sociale.
Possiamo spiegare queste circostanze solo con ipotesi.
La precedenza della ricerca etnografica su quella sociologica si può spiegare con le esigenze dei poteri coloniali ai fini del controllo dei popoli sottomessi. Mentre il ritardo dello sviluppo della sociologia in rapporto all'etnologia può giustificarsi col fatto che è più facile criticare altri che criticare se stessi. Perché l'applicare a se stessi la regola di Durkheim di studiare i fatti sociali come "cose" è assai difficile, dal momento che si mette in discussione il nostro stesso modo di vita, come facciamo senza preoccupazioni a proposito della vita degli altri. Da notare infine che la sociologia, una volta costituitasi come scienza, operò di riflesso anche sull'etnologia, mentre traeva da questa dati utili per sviluppare la propria tematica sociologica.
Adesso, senza fare per conto nostro la commedia degli orchestrali di Fellini, possiamo tranquillamente riconoscere che l'antropologia culturale si è venuta configurando come metodo di analisi di modelli culturali. Ossia modelli teorici (modelli "di"); modelli pratici (modelli "per") e modelli di valutazione (o "valori"). Questi modelli sono rilevabili nella loro forma di condizioni "a priori" del comportamento dei membri di un gruppo umano. Il suo specifico campo non sono quindi le strutture sociali che si sostanziano in comportamenti coordinati - oggetto specifico della sociologia - ma le "idee" e i "sentimenti" che guidano questi comportamenti e che formano la loro dimensione culturale del fenomeno sociale totale.
Quindi, per riassumere: a) la sociologia studia i fenomeni sociali nell'insieme dei loro aspetti e movimenti, prendendoli come unità dialettiche microsociali, di gruppi e globali, nei loro processi di strutturazione e destrutturazione; b) l'antropologia culturale studia qualcosa che sta a priori dei fenomeni sociali, e cioè le forme della cultura che li caratterizza, nei loro aspetti di decondizionamento biologico, condizionamento culturale, processi di decondizionamento e ricondizionamento culturale.
In realtà la distinzione tra diverse discipline ha una matrice almeno in parte storica, come del resto i problemi che trattano. Se poniamo i problemi in questi terreni, vediamo che le questioni che dividono antropologi culturali, sociologi ed etnologi possono venire ridotte. Anche se non mancherà mai che aspiri al monopolio accademico della disciplina in cui si é formato, e che ha contribuito a costruire il suo "ego" empirico.
L'antropologia culturale quindi, considerato il campo specifico della sua ricerca, é valida per l'interpretazione di tutte le società senza eccezione, grandi e piccole, tradizionali e moderne. Mentre abbisogna, per il seguito dell'analisi, dell'apporto specifico dell'Etnologia per le società tradizionali, e della Sociologia per le società moderne a ritmo rapido di mutamento.
Ecco perché un curriculum accademico avente vocazione per attività internazionali qualificate in tutti i paesi del mondo, come quello di Gorizia, non può non includere l'antropologia culturale fra le materie obbligatorie e con corso annuale.
Persino la Banca Mondiale, dopo le aspre critiche ricevute per i suoi vistosi insuccessi nel campo dello sviluppo, ha ora incluso degli antropologi nelle legione dei suoi economisti (anche se forse lo ha fatto solo per gettare del fumo negli occhi dei suoi critici).